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La dimensione culturale della malattia

  • Silvia
  • 5 mag 2020
  • Tempo di lettura: 5 min

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Considerare l’approccio etnologico della malattia è secondo me essenziale. Non si può parlare della malattia senza considerare il luogo, la religione, la tradizione, l’ambiente sociale, il terreno in cui si prende in considerazione l’atteggiamento verso di essa.

In occidente la medicina ha raggiunto dei livelli eccezionali, dove la cura per il particolare, l’attenzione ad ogni specifica patologia, gli interventi chirurgici accompagnati da tecnologie all’avanguardia ci fanno pensare alla possibilità di guarire ad ogni costo. Il dott. Byron Good crea un collegamento proprio tra i concetti di progresso, guarigione, il senso di salvezza che spesso si riconosce nel concetto di risoluzione da parte della scienza. Purtroppo non è sempre così! Ricordo conobbi ad una conferenza un’anziana donna indiana, che nel suo paese e nella tarda età aveva cominciato a “guarire” le persone in maniera miracolosa. Ci raccontò che tra le tante persone che le avevano chiesto aiuto era andato anche il primario di un ospedale importante che aveva perso ogni speranza di guarigione della moglie e lei l’aiutò! Cosa possiamo imparare da questo? Come dice lo stesso dott.Good che la biomedicina e la medicina tradizionale possono convivere, rispettando gli approcci alle persone, alle famiglie, alla malattia stessa. Il tutto come parte integrante di una cultura. Spesso si interviene prendendo in considerazione solo la malattia, si cerca di guarire i sintomi e non si va alla ricerca della causa, della motivazione possibile che ha creato la situazione di mal-essere. Il malato perde il ruolo di persona e magari è solo un numero di letto della tale stanza. Questa è la cosa triste che sta accadendo e c’è sempre più il bisogno di un ritorno ad un rapporto medico- paziente più intimo, più confidenziale, dove il supporto empatico rende i momenti più difficili un po’ meno sofferti perché c’è un accompagnamento, la cura che fa bene nonostante. Mi è capitato di fare volontariato in un Hospice, dove le persone affrontano i momenti più difficili, terminali della propria vita e che hanno un grande bisogno di dignità, rispetto, attenzione e a volte anche della sola presenza silenziosa di una persona accanto. L’etnologo Benoist Jean afferma nel filmato che l’etnologia si può relazionare alla musica, alla religione, affrontando i temi della vita, della morte, del dolore e della stessa malattia in relazione alle diverse società, per comprenderne le diversità. Come ci si cura, le persone a chi si rivolgono a medici o a guaritori, sciamani, curanderos? Il pluralismo terapeutico è sicuramente interessante. L’integrazione tra le varie modalità di cura le ritroviamo in alcuni ospedali del nord Europa, in America, in Brasile, pian piano l’attenzione a questo argomento si sta facendo sempre maggiore.

Molti medici, antropologi, etnologi, professionisti nel settore del benessere, della cura nella relazione con l’altro si muovono in direzioni diverse proprio perché hanno compreso che ci deve essere un dialogo interculturale e interdisciplinare, anche se a volte complicato e articolato.

Una volta il rapporto con il medico, soprattutto nei paesi era così confidenziale, amichevole e le persone sembravano più serene, le malattie avevano meno nomi strambi e la vita era più semplice senza tanto stress, si stava meglio. Oggi le nostre vite sono multi-tasking, corriamo, ricerchiamo il benessere economico, tutto è iper e lo stress ci accompagna. Ovviamente le emozioni ci coinvolgono, travolgono e spesso la malattia è il nostro primo campanello d’allarme. Le emozioni che proviamo diventano spesso fattori scatenanti…una bella arrabbiatura, spesso ci fa venire un mal di testa e/o un mal di stomaco dopo un po’! Ma chi ce lo insegna? Oggi si parla di malattie psicosomatiche, di training autogeno, di meditazioni trascendentali, mindfulness, yoga…molte definizioni o pratiche ci arrivano proprio da quei paesi in cui l’attenzione è sempre più stata data alle persone e al loro benessere fin dai tempi dei tempi. Sono una persona molto curiosa che ha la fortuna di aver viaggiato e conosciuto molti posti. Sono molto aperta anche alla sperimentazione di varie forme di cura che arrivano da ogni parte del mondo. Spesso la molla è stata proprio nel non trovare beneficio nelle cure mediche “nostre” e ricercare un approccio diverso. Personalmente ricordo che molti anni fa avendo un problema con la tiroide, dopo aver seguito per anni una certa cura, con un certo medicinale, non sentendomi soddisfatta (a distanza di anni mi hanno confermato che non l’ avrei dovuta proprio fare), ho iniziato a curarmi con la medicina ayurvedica, ho provato l’agopuntura, ho usato fitoterapici, prodotti omeopatici, ho sperimentato il suono come forma di guarigione e perché no, proprio per abbracciare ogni sistema ho incontrato un indiano navajo che utilizzava una tecnica sciamanica per guarire… penso che quando hai un problema o ti deprimi o ti dai da fare e cerchi la soluzione ovunque! E ad oggi sto bene, vai a capire se poi è stato tutto quello che ho provato o solo un atteggiamento mentale? Io penso che tutto aiuta.

L’etnologo Piero Coppo accenna all’orecchio sensibile aperto alle specificità culturali in contesti differenti. E’ proprio questa cura, questa attenzione, questa sensibilità che già nei tempi antichi si ritrova anche in occidente. Basti pensare ad Ippocrate, Esculapio, all’importanza che attribuivano a certi fattori.

In alcuni paesi ci sono state le rivoluzioni culturali e sono andate perse tante informazioni che avevano a che fare con metodi di cura antiche, per non dimenticare quanti testi con preziosi preparati fitoterapici bruciati insieme alle povere streghe nei roghi… La medicina, religione e potere a volte si confondono, è una storia vecchia, ma neanche tanto! E’ solo grazie a studiosi attenti, curiosi, dei ricercatori veri che in base alla loro esperienza, esperienza a contatto con altre culture, riescono a far emergere le bellezze che ci legano alla natura, alla Madre Terra dalla notte dei tempi.

Mi è capitato di incontrare sciamani, guaritori da diverse parti del mondo, per una mia ricerca personale. Ho assistito a riti di guarigione, di uomini medicina, sciamani, dove la cura avviene richiamando spiriti, offrendo loro del tabacco, alcool, erbe. Si occupano delle malattie dell’anima e del corpo. Spesso vanno a caccia dell’anima perduta della persona, ballano, cantano, pregano, vanno in trance. La capanna sudatoria dei nativi americani rigenera il corpo. I Quechua delle Ande utilizzano piante, incontrano gli spiriti, i demoni. Rituali con l’ayahuasca, liana amazzonica in questo periodo stanno andando molto di moda… in tanti si improvvisano guaritori. Molti studiosi antropologi, etnologi, psicologi, psicoterapeuti si sono spinti a vivere esperienze in tribù acquisendo così informazioni tramite l’osservazione dei rituali così legati alla forza della natura. Jung stesso studiava i fenomeni collegati con lo sciamanesimo che riteneva la via dello spirito nella dimensione trascendentale e arcaica, come manifestazioni dell’archetipo del Sé.

Lo psicodramma molto riprende le feste che lo sciamano celebra per risolvere le tensioni sociali. I disturbi associativi della personalità, traumi, shock, depressioni spesso vengono rapportati alla perdita dell’anima, alla possessione, ai riti esorcisti, alla dissociazione.

Gli studiosi hanno notato che gli esseri umani presentano dei comportamenti che vanno aldilà della razza, dell’epoca storica e della collocazione geografica, quindi aspetti in comune oltre alle differenze apparenti. Il senso risiede, probabilmente, nel bisogno di contatto, comunicazione con il primordiale ancestrale che appartiene ad ognuno di noi. Sono convinta che l’integrazione olistica tra le terapie alternative, indigene e le medicine tradizionali sia la miglior strada da percorrere per la cura dell’uomo corpo mente anima!


 
 
 

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